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"Three Identical Strangers": un esperimento sociale al limite dell'etico



Riconoscete i fratelli in foto? Sono i gemelli Eddy, Robert e David, protagonisti del documentario prodotto dalla CNN Films e da Raw TV "Three Identical Strangers", uscito un paio di anni fa e da poco disponibile su Netflix Italia, e testimone di una storia agghiacciante.

È il 1980, quando il diciannovenne statunitense Robert (detto Bobby) Shafran entra per la prima volta al Slivan County Community College. Incredulo, sembra che tutti lo conoscano già: c'è chi lo saluta, chi gli sorride, chi gli chiede come siano andate le vacanze. Bobby è perplesso, anche perché questi saluti sono accomunati da uno strano fattore comune: tutti lo chiamano Eddy.

Grazie ad un compagno di stanza, che rivela a Bobby la data di nascita di questo Eddy coincidente ovviamente con la sua, scopriamo nei primi minuti del documentario l'esistenza di due gemelli separati alla nascita, che il destino ha fatto incontrare nuovamente.



Tutti i giornali e le reti televisive ne parlano, fino a che la storia arriva nel Queens, dove prenderà una piega ancora più paradossale: si palesa l'esistenza di un terzo fratello, David.


Inizia un periodo glorioso per Eddy Galland, Bobby Shafran e David Kellman, che diventano delle vere e proprie celebrità: ospiti al famoso Phil Donahue Show, conquistano persino un cameo nel film Cercasi Susan disperatamente con Madonna. Gli Stati Uniti sono completamente innamorati dei tre simpatici gemelli, che arrivano ad aprire un ristorante a Soho, chiamato The Triplets, sempre pieno di ospiti e di allegria.

Ma l’allegria svanisce presto dalla storia, narrata tra l’altro solo da Bobby e David. Già, perché Eddy nel film non viene intervistato, e lo spettatore ne intuisce presto il motivo; iniziano così ad affiorare i primi dubbi sull’adozione dei gemelli e scopriamo che della terribile verità erano tutti all’oscuro.

Nessuno dei sei genitori adottivi sapeva dell’esistenza degli altri fratelli; ma come è possibile? Come scoprirà Lawrence Wright, premio Pulitzer e giornalista del New Yorker, i tre non si sarebbero mai dovuti incontrare. A non volere il loro incontro infatti erano proprio gli psichiatri Peter Neubauer e Viola Bernard, veri protagonisti di questa storia, interessati a capire come gli individui con gli stessi geni si sarebbero comportati in ambienti diversi. Avete capito bene: complice l'agenzia di adozione, la Louise Wise Services, i tre gemelli furono affidati a tre famiglie di ceti sociali diversi e seguiti nel tempo, per rispondere all’annoso dibattito “nature versus nurture”, in italiano “natura contro cultura”, ovvero se il comportamento umano sia determinato dall'ambiente circostante o dal set genetico di una persona.


Parte delle assurdità di questa vicenda è che, pretendendo che fosse una prassi per il benessere dei bambini adottati, periodicamente ogni anno alcuni ricercatori del team di Naubauer e Bernerd si recavano dalle famiglie adottive e facevano misure, conducevano interviste, effettuavano registrazioni, per paragonare in un secondo tempo l'evoluzione dei gemelli in contesti diversi.

Così come con Eddy, Bobby e David, il regista Tim Wardle ci racconta che la stessa sorte la subirono dozzine di gemelli. Anzi, alcuni di loro sono riusciti a ricongiungersi proprio grazie all’uscita dello scoop prima e del documentario poi. La loro vita era tutta un esperimento; questa scoperta secondo Bobby e David fu ciò che spinse Eddy, che soffriva di disturbo bipolare, a togliersi la vita nel 1995 (e per questo non presente nel documentario come voce narrante). La presenza di disturbi di carattere psicologico, come raccontato nel film, non è un dettaglio da poco: la madre dei gemelli soffriva anch’ella di disturbi psichiatrici (così come altri genitori biologici dei bambini oggetto di analisi), e l’obiettivo dell’esperimento era anche e soprattutto definire se tale aspetto, la malattia psichiatrica per l’appunto, fosse ereditabile oppure frutto dell’educazione ricevuta.

Anche in seguito all’uscita dello scoop, l'agenzia di adozioni ha sempre respinto ogni accusa, e lo stesso Neubauer, morto nel 2008, non ha mai chiesto scusa, e ha anzi rivendicato con forza l'importanza dello studio. Studio di cui non sono stati pubblicati i risultati, conservati a Yale, né lo saranno fino al 2066; quando, in pratica, tutti i soggetti, cavie inconsapevoli, saranno probabilmente morti.

Perché questo episodio lascia così sgomenti? Nonostante c’è chi sostiene che all’epoca fosse assolutamente etico (a tal proposito, vi segnaliamo l’articolo pubblicato su JAMA da Hoffmann e Oppenheim), per chi scrive questo episodio si inserisce in un’epoca in cui il dibattito circa il tema del paziente e della sua partecipazione alle sperimentazioni era particolarmente caldo, e aveva portato alla stesura di precise linee guida pochi anni prima.



Per capire appieno di cosa si sta parlando bisogna fare una premessa: ovvero ricordare che l’evento traumatico che ha segnato una svolta nell’etica medica sono i crimini commessi dai medici nazisti nei campi di sterminio e di concentramento. Sarà infatti il Codice di Norimberga nel 1947 a parlare di consenso informato del paziente quale elemento imprescindibile per una corretta pratica clinica, e pilastro della liceità di ogni attività sanitaria. Da Norimberga e dal cosiddetto "Processo ai dottori" seguiranno poi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU del 1948 e la Dichiarazione di Helsinki del 1964, documenti alla base della moderna bioetica.


E allora com'è possibile, ci chiediamo, che ciò sia avvenuto qualche anno dopo la stesura di queste carte? Che non siano state seguite le regole frutto di discussione e condivise dalla comunità scientifica? Che uomini e donne di scienza abbiano abusato della propria posizione per portare avanti sperimentazioni che, anche se non immorali per alcuni erano sicuramente già all'epoca al limite dell'etico, “nel nome della psicoanalisi”?


Lo spettatore non sembra riuscire a trovare una risposta chiara a questi interrogativi, e termina la visione del documentario con ancora più domande che risposte.


Carlotta Jarach



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